La situazione geomorfologica dell’area alpina ne ha condizionato la storia dell’antropizzazione, inducendo un notevole ritardo della colonizzazione da parte dell’uomo, rispetto ad aree come la Liguria, in quanto lo scolo delle acque dei ghiacciai, la rendevano particolarmente acquitrinosa e quindi inabitabile; viceversa nella vicina Liguria l’uomo si era gia insediato a partire dalle ultime fasi dell’uomo di Neanderthal. Non mancano comunque tracce dell’uomo in Piemonte nel periodo paleolitico, nell’Alessandrino, nel Vercellese ed anche in provincia di Torino; nel neolitico le tracce di presenza umana diventano più evidenti un po’ in tutto il territorio, compresa la Valle d’Aosta.
Il gruppo etnico che si insediò nel Canavese, proveniva quindi dalla Liguria ed era originario, si presume, della zona uralo-altaica; successive testimonianze le ritroviamo anche in luoghi come Piverone ed il lago adiacente e risalgono all’età dei metalli ( Bronzo medio e finale).
Successivamente, si presume verso il IV secolo a.C., i Celti di origine germanica, invasero le terre piemontesi e seppur lentamente si mescolarono alle etnie autoctone, tanto che lo stesso Strabone, riferendosi alla Cisalpina nomina i "popoli liguri e celtici che la abitano, quelli sui monti, questi al piano" ; le notizie successive ci provengono da fonte romana, in particolare per quanto riguarda i Salassi e gli Ictimuli che abitarono le nostre terre. Prima del 100 a.C., anno di fondazione di Eporedia (Ivrea) da parte dei Romani, i Salassi erano presenti un po’ in tutto il Canavese; essi furono un popolo forte e bellicoso al punto di avere l’ardire di imporre, a Decimo Bruto ed ai suoi legionari, fuggiti da Roma dopo la congiura contro Cesare, il pagamento di un denaro a testa per poter transitare in Canavese. Essi stessi probabilmente edificarono il primo nucleo di Ivrea, come ci dice Plinio che definisce il luogo come un oppidum fortificato. Nel 143 A.C. il console romano Appio Claudio si scontrò in Canavese con i Salassi ed i romani allora, lasciarono sul campo di battaglia circa 10.000 morti, evento questo che a Roma fece enorme impressione e che diede il via ad una lunghissima serie di azioni repressive, da parte romana, finché nel 25 a.C. il luogotenente imperiale Aulo Terenzio Varrone Murena, un po’ con la forza ma molto con l’inganno, riuscì ad aver ragione di questo popolo; le cronache parlano di 42.000 prigionieri, di cui 8.000 vennero incorporati nelle legioni romane mentre ben 36.000 vennero venduti come schiavi sul mercato di Eporedia.
Gli Ictimuli (Vittimuli) abitarono l’area della Serra, con particolare concentrazione nella zona della Bessa, tra i torrenti Elvo e Olobbia e diedero vita ad una importantissima attività mineraria, legata all’estrazione dell’oro; l’area fu dapprima sede di stanziamenti Liguri, poi Etruschi, poi Celti, poi Salassi ed infine Ictimuli, fino a quando i Romani si appropriarono del luogo e con i proventi dell’attività mineraria finanziarono le campagne militari (qualcuno sostiene che le guerre puniche furono finanziate con l’oro della Bessa).
Il periodo di attività durò a lungo, si presume dalla seconda metà del II° secolo a.C. fino alla metà del I° secolo d.C.. Considerando che la distanza fra Piverone e la Bessa può essere percorsa a piedi in circa due ore, si può immaginare quale influsso ebbero queste vicende sul nostro territorio. Quindi abbiamo visto quali origini etniche abbiano avuto le popolazioni che abitarono le pendici della Serra; ma più precisamente, dal punto di vista documentale, al momento attuale, le testimonianze archeologiche più cospicue sono riferibili all’età del Bronzo medio-tardo e Bronzo finale e riguardano siti terrestri e siti lacustri subacquei.
Un reperto per tutti: gli stampi multipli di pietra (vedi foto foto a lato), per la fusione di spade di bronzo, rinvenuti a Piverone ed attualmente custoditi al museo di Torino. Tale manufatto, che riveste un’eccezionale importanza, certifica che i nostri progenitori erano degli abili lavoratori del metallo ed il forno preistorico in cui si effettuavano queste lavorazioni è ancora sottoterra, ai margini di un campo, saggiamente lasciato in loco dal suo scopritore, il Rev. Don Enrico Boratto, parroco di Piverone, che ha scritto un interessantissimo volume sulla storia del luogo; di questo volume purtroppo sono rimaste poche copie in circolazione. Il Rev. Don Boratto prudentemente, dopo aver scoperto il forno preistorico, non potendo all’epoca garantirne la conservazione, preferì lasciarlo interrato onde evitare che andasse distrutto.
Il suo successore, Don Carlo Rolfo si dedicò anch’egli a ricerche in campo preistorico, con particolare riferimento al popolo dei Vittimuli, i cercatori d’oro che operarono nella Bessa, a poca distanza da Piverone, sul versante nord-orientale della Serra. A mezz’ora di cammino da Piverone, si svilupparono alcuni villaggi palafitticoli, posti sulle spiagge del lago, ai confini tra il territorio di Piverone ed Azeglio, in prossimità dell’unico emissario del lago stesso. Il villaggio più esteso, che annovera diverse migliaia di pali, attualmente posti a circa quattro metri sotto il livello del lago, ad una semplice raccolta di superficie, ha restituito pregevoli manufatti, tra cui un’ampia raccolta di vasellame ed utensili di uso quotidiano, come spilloni di bronzo finemente lavorati, punte di lancia, matrici per la fusione degli spilloni, rasoi, pinzette, pesi per reti di terracotta, monili, pettini, ecc.
E’ quindi probabile che contestualmente vi fossero nella zona di Piverone abitanti "di terra" che vivevano in capanne di pietra e legno ed abitanti "d’acqua" i palafitticoli, che vivevano in capanne, le palafitte, interamente realizzate con legno e poste sul bagnasciuga del lago ( è bene ricordare che all’epoca, il livello del lago era sicuramente più basso di quello attuale di almeno quattro metri ). In epoca romana il sito fu sicuramente abitato, in quanto luogo di passaggio per raggiungere le Gallie provenendo da Roma e che a Piverone vi fossero ville romane è testimoniato da Don Boratto, che nel suo libro ne individua una in regione Abbadia.
In epoca successiva, i Longobardi, preoccupati dalla possibilità di un’invasione da parte dei Franchi, eressero una importante opera difensiva, denominata "chiusa longobarda" che avrebbe dovuto sbarrare il passo all’esercito invasore, lungo le colline poste a Sud-Est del lago; di tale opera sono ancora visibili i resti in alcuni punti della collina, ai confini tra Roppolo, Cavaglià ed Alice Castello.